All'Exmà di Cagliari una mostra dove poesia e potere del colore s'intrecciano con una scelta d'amore
“Zihuatanejo” è un incendio di gioia. La poesia e il potere del colore sintetizzati in 124 centimetri per 94. È il Messico raccontato da Vanina Sechi, la sintesi pittorica di un'emozione talmente forte che sul finire degli anni Sessanta, quando l'artista sarda arriva nella capitale per un congresso di filosofia e arte, la costringe a prolungare di tre anni il suo breve soggiorno in quei luoghi. La conoscenza delle opere di Rivera, la frequentazione di Siqueiros e Tamayo accendono la sua pittura che nei precedenti soggiorni in Danimarca, e poi nel New Heaven, si era nutrita di grigi e di bianchi.
“Zihuatanejo” è anche l'intrigante biglietto da visita con cui l'Exmà di Cagliari dà notizia della retrospettiva (allestita sino al 4 luglio) che è una straordinaria sintesi di arte e di vita.
Quella di un'artista determinata, troppo poco conosciuta in Sardegna, che nella sua lunga esistenza conclusasi due anni fa a Toronto, ha trasformato spazio e tempo in due formidabili occasioni di conoscenza.
La mostra cagliaritana curata dalla storica dell'arte Marzia Marino e inaugurata l'altro ieri dall'assessore alla cultura Giorgio Pellegrini è anche un grande atto d'amore. Quello che vede protagoniste due donne testarde e appassionate: Mimì Sechi, sorella di Vanina, per anni docente di tedesco nella facoltà di Cagliari, e la giovane nipote Laura, figlia del fratello Paolo. Sono state loro, due anni fa, dopo la morte di Vanina avvenuta a Toronto, a mettersi sulle sue tracce. Loro a recuperare in un modo rocambolesco - con i quadri custoditi nella casa canadese - gli altri, quelli della galleria di Washington fondata negli anni Settanta dall'artista, rimasti per decenni in un magazzino e ora tornati a casa.
Casa. Per la verità la Sardegna non lo è mai stata del tutto, per Vanina. E se c'era, era una casa stretta. Uno spazio troppo angusto per un'anima vibrante che aveva bisogno di spazio.
Vanina nasce nel 1924 a Oristano, dove il padre Giuseppe è spedizioniere, vive a Cagliari, dove la mamma Adelina Giacobbe insegna al Riva, studia al liceo Dettori, che definisce senza troppe mezze misure “decrepito”. Si iscrive in Filosofia, la sua passione, con l'arte, ma la facoltà cagliaritana non le piace. Convince i genitori a spedirla a Firenze, butta il libretto universitario e ricomincia il suo percorso, avendo per professori Eugenio Garin, Gaetano Schiavacci, soprattutto Gaetano Salvemini. Si laurea nel 1951, con una tesi sul mondo dell'arte in Schopenhauer che rappresenta la sintesi dei suoi interessi. L'anno successivo, dopo un breve passaggio nella sua isola, è già di nuovo in partenza per la Danimarca, dove concentra i suoi interessi filosofici su Kierkegaard e dove - portandosi dietro e dentro il suo prezioso bagaglio di esperienze coltivate a Firenze - si avvicina a Munch e all'Espressionismo. Gli anni Sessanta la vedono in Sardegna, a insegnare filosofia in un liceo, a trascorrere le estati a Torregrande, a fissare nelle sue tele i colori algidi che la permanenza danese le ha donato. È nell'anno accademico 66-67 che Vanina ottiene una borsa di studi Fullbright per Yale, prima donna sarda nella prestigiosa università americana. Non tornerà più in Italia, se non per brevi soggiorni. Vivrà a Washington, dove la sorella Bice è docente di Fisica Nucleare presso l'Università del Maryland, e a Toronto, dove ottiene la cattedra di Estetica, poi - per tre intensissimi anni - in Messico.
Ma è il soggiorno a Parigi a metterla di fronte a un bivio: molla l'insegnamento, si dedica soltanto alla pittura e con Bice fonda ad Alexandria, dieci chilometri a sud di Washington, l'International Art Gallery “Vita Nuova”. Un nuovo luogo dell'anima - il 1203 di King Street - dove esporre i suoi lavori, dove confrontarsi con quelli altrui. Dove lasciare tutto, con dolore, quando Bice muore lasciandola sola.
Raccontare la vita di Vanina, come ha fatto Marzia Marino nella presentazione (dilungandosi sul valore delle sue opere) è un modo per farne capire la vivacità del pensiero, la sensibilità estrema, la capacità di prendere dagli altri riuscendo ad essere unica. Ma anche la apertura al mondo e la capacità di cogliere nei suoi soggiorni a Torregrande, nei dipinti di sabbia e di olio, quelle che Pellegrini ha definito «le memorie atmosferiche di un'isola avara ma pur sempre bellissima».
Un'isola nella quale ora Vanina è tornata. Con la poesia della sua arte, con la forza dell'amore dei suoi familiari. Alla Marino il compito di riscrivere con appassionata partecipazione la biografia, di raccontare l'arte di questa autodidatta così speciale, che approda all'informale (senza lasciare mai del tutto il figurativo) non con Pollock - che pure ha modo di conoscere, negli Stati Uniti - ma con gli espressionisti spagnoli. Appassionata di futurismo, (l'assessore l'altra sera raccontava con gioia i suoi quadri boccioniani), capace di creare dal nulla, negli Stati Uniti, una galleria vivacissima. Sarà soltanto la morte di Bice a mettere fine alla vita pubblica di Vanina, che a sessant'anni si ritira a vita privata: a dipingere tra Toronto e Torregrande, a riproporre, in maniera più intima, quella «modalità del vivere dove le due dimensioni dell'arte e della filosofia si incrociano e interagiscono». È il giudizio di Maria Teresa Marcialis, che non ha conosciuto Vanina ma da attenta studiosa di filosofia qual è ne ha colto l'autenticità, la coerenza, la capacità di non omologarsi. Di rispondere alla domanda esistenziale: chi sono?
Emozionante la mostra (52 quadri per una retrospettiva 1949-2008), emozionante la ricostruzione di come le donne di casa sono riuscite a recuperare il tesoro di Vanina. «Dopo la sua morte ho scritto a decine di magazzini per cercare i dipinti di zia», ha detto ieri la nipote Laura. Alla fine è giunta una mail del tutto insperata: ce li ho io . Firmata da un certo mister Ward, che evidentemente conosce il piacere dell'onestà e il valore della bellezza.
MARIA PAOLA MASALA
11/06/2010