MUSICA. Incontro con il popolare cantautore, stasera al T Hotel di Cagliari per due attesissimi concerti
«Odio il caos di oggi, ma non vivo del passato»
«Sa che cosa manca? la capacità di coltivare il silenzio». Don Backy non ha dubbi. Lui che si nutre di musica sa bene che cosa distingue l'armonia dal caos. «E oggi in Italia regna la confusione. Troppi rumori, troppi muri pasticciati. Un tempo, al massimo, ci trovavi scritto Viva Garibaldi». Settantuno anni e una zazzera candida che accentua la modernità del suo volto da eterno ragazzo, Don Backy non ha perso la verve polemica né il gusto di dire la verità. «Mi considero un conservatore progressista. Devo adattarmi ai tempi, naturalmente, ma mi tengo stretto ciò che per me è importante».
La musica, sopra tutto. Quella che oggi lo porterà a Cagliari, al THotel, per un doppio concerto, alle 17 e alle 19, promosso dalla Circoscrizione numero 4 e organizzato dalla Clair de Lune di Bruno Camera, trentanovenne chitarrista classico che si è perfezionato con mostri sacri come Alirio Diaz, Oscar Ghiglia, Maurizio Colonna, ma ha sempre avuto un debole per Don Backy. Gruppo ospite sarà la Banda Battisti. «Canterò “L'Immensità”», annuncia il cantautore toscano, «ma anche le nuove canzoni. Continuo a scriver musica, fa parte di quello che sono: è questo mestiere che ha scelto me, non il contrario. Quando le canzoni nascono, io sono dell'idea che volino, non possono restare nei cassetti. E allora io le acchiappo e le metto sulla carta».
Lo fa da mezzo secolo, da quella “Storia di Frankie Ballan” che con “L'Immensità” (e “Volare” di Modugno) è la sua preferita. Quest'anno, per le nozze d'oro con la musica leggera, si è concesso un bel cofanetto, (“Cinquant'anni di Mestiere delle Canzoni”), e ha concluso il terzo dei suoi libri. Dedicato agli anni Ottanta, uscirà tra primavera ed estate. «Il mio è un racconto corale dell'ambiente in cui sono cresciuto, dell'evoluzione della musica ma anche della società, di ciò che l'Italia ha attraversato e di che come è cambiata». Il quarto e ultimo libro racconterà gli anni Novanta. «Ho cominciato a scriverlo in questi giorni, mentre impagino foto, articoli, lettere, immagini del terzo».
Autore di testi che hanno fatto la storia della canzone italiana, Don Backy, al secolo Aldo Caponi, di Santa Croce sull'Arno, è uomo (schivo e misurato) di molte passioni. Musica, scrittura, fumetto, pittura. E cinema. Aveva la faccia giusta per interpretare certi ruoli e lo capirono parecchi registi. Oltre i soliti musicarelli può contare collaborazioni con Lizzani “Banditi a Milano” e “Barbagia”, («la mia unica canzone dedicata a una regione si chiama “Sardegna”», Polidoro (“Satyricon”), Gianni Puccini ( “I sette fratelli Cervi”), Franciosa (Quella chiara notte d'ottobre”) e Bava (“Cani Arrabbiati”. Divenne amico di Gian Maria Volontè, protagonista dei film di Lizzani e Puccini. Poi - era la metà degli anni Settanta - tutto finì. «Mi piaceva fare cinema, ma io non frequento salotti e terrazze, e il cinema è un mestiere che se non coltivi le amicizie... Comunque non rinnego nulla. E non mi sono fatto mancare niente. Mi piace mettermi in gioco. Ho fatto anche teatro: due commedie musicali negli anni Ottanta, “Teomedio” di Fabio Storelli, che vinse il Premio Idi, e “Marco Polo”, con la regia di Lele Luzzati.
Come nasce una canzone?
«Basta osservare il mondo e cogliere gli spunti più interessanti. Chi fa l'ingegnere o l'avvocato o la giornalista non ci fa caso... Io che sono un autore colgo altro, se vedo una lucciola lungo il Tevere può nascermi l'idea per una canzone su una ragazza di notte... Le cose comuni per altri, per me assumono contorni diversi, diventano soggetti».
Perché non la vediamo in giro con gli altri cantanti della sua generazione?
«Perché non mi piace ripropormi. E se non c'è una motivazione specifica preferisco non agitarmi troppo. Sono iperattivo, ma so essere anche pigro. Lavoro, non sempre ottengo un successo commerciale, ma le cose che faccio sono tutte all'altezza delle cose migliori che si vedono oggi».
A chi deve dire grazie?
«A tutti quelli che mi hanno voluto bene».
Come vive oggi la sua maturità?
«L'ho detto, adoro i vecchi tempi, Se dovessi scegliere io, gli Anni dai Cinquanta e Sessanta erano formidabili. Dal punto di vista della serenità e anche della ingenuità. Eravamo anime semplici».
Era meglio anche musicalmente?
«C'era più creatività. La musica è come i bambini. Quelli della mia generazione si inventavano i giochi, oggi hanno tutto pronto, non nutrono più la fantasia. Con la musica è uguale: c'è tanta di quella tecnologia che non si trova più lo stimolo per inventarsi. Noi con due giri armonici, due accordi messi in croce andavamo a cercare cose nuove».
Segue i talent show?
«Per carità di Dio, no. È tutta una manfrina».
Ha visto Sanremo?
«Non lo guardo dal 1973. Al mio ultimo festival, nel '71, ho portato “Bianchi cristalli sereni” (in seguito cantata da Baglioni e Morandi). L'anno successivo “Nostalgia”: fu bocciata”. Tornai alla carica nel '73 con “Sognando”. Non la accettarono (poi la cantò Mina). Dissi: anche io non accetto voi. Da allora ogni anno ho presentato una canzone che è stata bocciata. L'ultima nel 2010, “Vent'anni”. Stavolta non ci ho neanche provato. Con Morandi avrei avuti poche chances. Quanto a Vecchioni, ho espresso gli stessi temi anni fa con “Diluvio Universale”. Morandi? sì, mi ha deluso tanto tempo fa. Celentano? se vuole ne parliamo, ma non avrei nulla di nuovo da dire...».
MARIA PAOLA MASALA