TEATRO. L'attore torna (oggi e domani) a Cagliari con lo spettacolo “Italiani Cìncali!”
«Questo è lo spettacolo che mi ha tirato fuori dalla gavetta e fatto diventare Mario Perrotta». L'attore leccese parla di Italiani Cìncali! , che ha scritto con Nicola Bonazzi e interpretato per parlare dell'emigrazione italiana nelle miniere del Belgio, nei panni di un postino che ha tra le mani l'epopea di uomini e donne. Concorrono a questo salto nella memoria le voci registrate di Beppe Barra, Ferdinando Bruni, Ascanio Celestini, Laura Curino ed Elio De Capitani.
Tre anni di lavoro e 150 interviste per dare vita a una messinscena che ha debuttato nel settembre del 2003. Il risultato? Oltre 500 repliche tra Italia ed Europa e oltre 40 recensioni sulle testate nazionali, un progetto radiofonico e uno televisivo per la Rai. Grossissimo successo e tantissimi attestati di riconoscenza di gente che si ritrovava nella narrazione.
Italiani Cìncali! è stato inoltre finalista al premio Ubu nel 2004 e prima ancora ha ricevuto la targa commemorativa della Camera dei deputati per “l'alto valore civile del testo e per la straordinaria interpretazione”. Gli è stata consegnata durante una delle repliche in Salento dove un giorno riuscirà a lavorare - c'è la volontà - con il conterraneo regista cinematografico Edoardo Winspeare.
Perrotta ha portato di recente il suo Odissea al teatro Massimo di Cagliari. E ora torna in città per presentare Italiani Cìncali! oggi e domani alle 10,30 al Search del Municipio, grazie all'evento speciale che il Cedac ha organizzato per le scuole in occasione dei 150 anni dell'Unità d'Italia.
Un teatro con valore civile, quindi?
«Sono stato accostato a Paolini e Celestini e mi ha fatto piacere, ma i nostri sono tre modi diversi di fare teatro e inoltre non esiste un “teatro civile”, bensì due grandi categorie: il teatro fatto bene e quello fatto male. Essere uomo di teatro significa avere delle priorità e volerle trasmettere agli altri. Per me c'è stato il bisogno di tornare a casa che ha poi coinciso con la necessità di raccontare l'Italia».
Cioè?
«Avevo una personalissima urgenza: non volevo fare teatro civile ma raccontare il Salento degli emigrati. Un'esperienza vissuta in prima persona, a dieci anni, quando facevo la tratta ferroviaria Lecce-Milano, affidato alle famiglie in partenza per andare a trovare mio padre che lavorava in Lombardia».
Un viaggio lungo con tante storie?
«Ho vissuto questa gente, i loro sguardi svuotati che si illuminavano quando arrivavano in Puglia e vedevano le distese di mare e ulivi nel loro viaggio di ritorno a casa. Io ho potuto scegliere di andare via, altri no. Ho voluto raccontare con gli occhi di chi non aveva quella scelta».
MANUELA VACCA