Dalla prosa alla lirica: il regista (e attore) Arturo Cirillo racconta “Napoli Milionaria!” l'opera di De Filippo-Nino Rota che sabato alle 21 debutta al Teatro Lirico di Cagliari
Vedi la foto A Eduardo è arrivato per vie traverse: quelle della lirica. Classe 1968, attore e regista tra i più apprezzati e innovativi del nostro teatro, Arturo Cirillo non si è mai confrontato con la drammaturgia di De Filippo. (Eppure è nato a Castellammare di Stabia). Lo fa adesso, anzi, lo ha fatto un anno fa, con questa “Napoli Milionaria!” musicata da Nino Rota, rara incursione nella lirica. Proposta dal Festival della Valle dell'Itria per il centenario della nascita del musicista milanese, l'opera ha debuttato a Martina Franca con un buon successo di pubblico e di critica. Feroce fu quest'ultima all'indomani del debutto assoluto dell'opera, il 22 giugno del 1977 al Festival di Spoleto. Demolirono non il testo dello stesso Eduardo, che si allontanava abbastanza dalla commedia del 1945, né la sua regia, ma Rota, e la sua musica. Trentatré anni dopo, tutto è cambiato. Sabato alle 21, il Lirico propone l'opera con lo stesso allestimento e lo stesso cast di un anno fa. Sul podio, ancora Giuseppe Grazioli.
A raccontare “Napoli Milionaria!”, la storia di una famiglia travolta dalla miseria, dalla guerra e dal rovesciamento dei valori, sono stati l'altra sera al Lirico, in un'insolita conferenza di presentazione, Alfonso Antoniozzi (Gennaro Jovine) Tiziana Fabbricini (Amalia) e Arturo Cirillo.
Perché non ha mai messo in scena Eduardo?
«È un'idea che inseguo da anni, ma c'è dietro un complicato discorso di diritti. Volevo fare “Natale in casa Cupiello”, sono pieno di progetti su di lui. Devo dire che è stato interessante avvicinarmi a De Filippo attraverso Rota. Un anno fa per me era una insensatezza. Mi sembrava che l'opera lirica perdesse molte cose dell'incrocio tra gioco e tragedia, che i personaggi non potessero essere sfaccettati come nel testo teatrale. In una parola, mi sembrava ridicolo che anziché recitare cantassero».
Si è ricreduto.
«Anche grazie a un cast eccellente. Ho capito che questo era un altro modo di narrare la storia, e parlandone con gli allievi di una scuola di Udine, mi sono accorto che certi discorsi musicali e ritmici dell'opera mi sono tornati tutti».
Come ha affrontato la regia?
«Cercando di togliere un po' di naturalismo alla narrazione. Se dovessi fare Eduardo a teatro, lo staccherei dal modello dominante da lui stesso imposto. Con l'opera questo sfasamento è più evidente. Innanzitutto c'è la musica. E la musica di Rota è piena di citazioni, leit motiv, rimandi. Nel secondo atto gioca con la musicalità americana: lo swing, il boogie woogie. Ho puntato sulle contraddittorietà, ho utilizzato questa stanza che è un po' teatro da commedia dell'arte, un po'carrettone dei comici, ho reso tutto più meta-teatrale. Eduardo era concreto e attento al realismo scenografico, a me pareva interessante cambiare».
Il successo dell'anno scorso le ha dato ragione.
«La versione secondo Eduardo c'era già stata, non potevo riprodurla, io l'ho contaminata con Almodòvar, un certo sogno americano in crisi, alla Tennessee Williams, e forme iconografiche di un teatro un po' da varietà».
Dica la verità, le verrebbe voglia di salire sul palco e recitare...
«Un anno fa no, adesso la tentazione l'avrei. Io sono un regista che sta spesso in scena. Star fuori mi fa soffrire. Come disse un giorno Servillo, non so mai dove mettermi. Qui, non potendo cantare, me ne faccio più facilmente una ragione».
A Cagliari, col circuito Cedac, ha portato negli ultimi anni “L'ereditiera” e “Le cinque rose di Jennifer” di Ruccello, “Le intellettuali” di Molière. E sempre con Monica Piseddu.
«La mia attrice sarda, e brava!. Ora, dopo l'“Otello”, mi aspetta una ripresa dell'“Avaro” di Molière, poi a Venezia porterò “Infinito”: un testo folle e divertente su Leopardi di Tiziano Scarpa. Poi riprendo con la compagnia di Sandro Lombardi “La morsa” di Pirandello».
Ha lavorato per tanti anni con Carlo Cecchi. Che cosa ha appreso da lui?
«Una certa insofferenza verso un teatro statico e dato per scontato. Cecchi mi ha insegnato a lavorare con gli attori e non sugli attori, a spingerli ad essere attivi. È estremamente autorale, e richiede dagli altri la stessa autonomia, ama improvvisare, rompere certi meccanismi. Ecco, questo sguardo un po' mosso, questo non sentirsi mai arrivati, è interessante. Io il teatro continuo a cercarlo ogni volta».
Torniamo a Eduardo...
«Lui ha una scrittura sapiente, mai dotta, un praticantato di palcoscenico, un meccanismo di invenzione... Per questo le sue storie non invecchiano».
“La guerra non è finita”: il finale senza speranza dell'opera, così bruciante negli anni di piombo, è valido anche oggi?
«Io non mi pongo il problema dell'attualizzazione. Ma è indubbio che oggi si senta forte un senso di disgregazione. La guerra può essere altro, può essere la crisi della famiglia. E poi c'è il rapporto con la ricchezza. Noi siamo un Paese in crisi, eppure facciamo un po' come i personaggi di quest'opera, che cercano di trasformare il basso in cui vivono. Crediamo di essere nel lusso, e siamo a un passo dalla miseria».
Maria Paola Masala