IL RICORDO. Un filo rosso lo lega all'amico Francesco Alziator
Il professore e il piacere della “domanda”
Antonio Romagnino finora l'abbiamo letto (oltre che, naturalmente, ascoltato). Da adesso dovremo studiarlo. Quel che avremmo dovuto fare, e solo in parte abbiamo fatto a più di trent'anni dalla morte, con Francesco Alziator, alla cui lezione e al cui genio hanno meravigliosamente corrisposto, in crescendo da quel congedo del 1977, la lezione pubblica e civile e il genio letterario del nostro Romagnino.
Il testimone formale se lo erano passato con il postumo alziatoriano “L'elefante sulla torre”: perché ad esso il professore aveva donato una introduzione che meritava da sola i galloni del saggio. Come saggi di storia e demologia urbana erano quegli articoli ricomposti per quartiere usciti sulla Terza dell'Unione Sarda lungo gli anni '60 e '70. E quel metodo del racconto storico, sociale e monumentale nel passeggio cittadino che era stato di Alziator era stato ripreso, come lascito ricevuto e vocazione propria, da Romagnino.
Capitò a me, nel 1981, di registrare uno speciale televisivo dedicato ad Alziator, nella casa tutto cielo di via Angioy, proprio coinvolgendo, con la vedova Dolores Ghiani, il nostro professore. Ne era venuta una conversazione profonda nei contenuti ma leggera nel registro della interlocuzione: perché nel rimbalzo degli interventi, a fronte delle pagine lette dalla professoressa Ghiani, Romagnino andava, al suo solito, a braccio e ogni capitolo di quella biografia narrata si sistemava così in modo perfetto e gustoso.
L'ANIMA LAICA Ma c'è un altro campo che fa simili Romagnino e Alziator: è la loro anima laica che pur si nutriva della “domanda”. Quel filo esile, impalpabile eppure reale di religiosità, che rimandava direttamente al senso dell'esistenza. Necessità ineludibile, ovvia perfino, per un umanista che il cristianesimo lo deve penetrare in ogni disciplina del suo studio e proporre nel corrente della sua docenza: dalla poesia all'arte, dalla filosofia all'architettura o alla musica…Quello che Giacomo Scarbo era stato per Giuseppe Dessì - l'alter ego da mettere in scena per raccontarsi nelle illusioni senza follia e nei dolori senza pianto - Romagnino se l'era scelto in Stefano. Presente nelle sillogi di epigrammi, nei capitoli di “La mano sul mento” e di “Chicchi di melagrana” (a proposito: si vedano qui le pagine dedicate a «Cucuccio, il poeta di una città» e quelle altre riferite al tanto «che non si cancellerà mai», il ricordo cioè della prigionia americana di cui avrebbe poi scritto in “Diario americano”, dopo quanto aveva voluto anticipare a me per “1946, l'anno della Repubblica”, per la prima volta riferendo distesamente di quella esperienza drammatica e più ancora istruttiva. Perché, accettando di collaborare alla “rieducazione” democratica nei campi di prigionia, aveva fatto la sua, non indolore, scelta di campo: contro la dittatura e per la libertà. Piace vedere qui un parallelo con la ancor più critica vicenda umana di Fabio Maria Crivelli che, all'armistizio del settembre 1943, sceglie - giovane ventiduenne - la prigionia nei lager nazisti piuttosto che intrupparsi nella Repubblica di Salò).
Dicevo della “domanda” religiosa. Tanto più in “Diario americano” essa si fa presente, quasi insistente, quando si richiamano uno dopo l'altro «quei tre disubbidienti che Stefano identificò come i grandi testimoni del suo tempo»: lo scolopio padre Ernesto Balducci, il servita padre David Maria Turoldo, il prete con sangue ebreo don Lorenzo Milani. Sì, il sacerdote controriformista che, scoperta «la funzione rivoluzionaria della scuola, trafiggeva tutti i tempi che sono venuti dopo e che verranno… Ci son tradizionalisti che marciano anche più avanti e rapidi degli innovatori». E i due religiosi: Turoldo, il poeta del Vecchio e del Nuovo Testamento, l'anticipatore del Vaticano II, e Balducci, il dotto profeta dell'“uomo planetario”. I disubbidienti, rimossi da una gerarchia senza Vangelo, vincitori nel teatro della storia.
LA RELIGIOSITÀ La religiosità di Romagnino si affaccia, sobria e pudica, in numerosi passaggi della sua sterminata produzione, ma soprattutto in una frase del capitolo XXIX di “Diario americano”: «Stefano non fu mai un anticlericale, anche se qualcuno mormorava che lo fosse. Nei suoi atteggiamenti in quella più tormentata materia c'era incancellabile un'eco delle esperienze americane, delle chiese di laggiù operose nel sociale, nella formazione della morale civica, ma immuni da impegno politico, da una scelta di parte. Divenne sempre più laico ma, se anche ci fu mai, il laicismo fu depurato e divenne solo laicità capace di comprendere la fede dei credenti e però anche persuasa di essere utile ad un Paese sempre più lacerato, senza più valori. Era questa posizione che lo faceva riconoscere in quei tre uomini di Chiesa, cui aggiungeva il religiosissimo Pier Paolo Pasolini. «Un “santo” che non è santo perché è amato dagli dei, ma è amato dagli dei perché è santo… ». Come Giordano Bruno - l'amato Giordano Bruno - finito con il fuoco purificatore.
LA LETTERA In una lettera del 14 dicembre 1997, mi scrisse: «Hai sentito/ho sentito come sia una felicità, che non ha premi alternativi, capire ed essere capiti. Scoprire, come hai fatto, che il pensare, il dire, l'operare laico, è parente stretto della religiosità. Sono appena una voce dei colloqui sommersi, gelosamente silenziosi. Questo, lo confesso, mi ha avvicinato di più, nel secolo feroce, che si chiude, a personaggi discreti e più spesso “fuori campo” liquidati come “eretici” o sospettati di esserlo… tutti bollati come “anti-preti”. Nel secolo che sta per accendersi cesseranno le persecuzioni? Forse basterebbe che accadesse quello che Guido Morselli ha inventato/sognato nell'ultima pagina del suo “Dissipatio H.G.”: un'apocalisse ha distrutto tutto e un uomo solo si è salvato, condannato all'infelicità della solitudine, quand'ecco da una distanza senza confini si fa sentire un tic tac, un segnale, una voce… la vita è rinata».
Gianfranco Murtas