Gino Strada all'Auditorium del Conservatorio di Cagliari: un'emozionante serata di etica e impegno civile
Un pezzo di stoffa bianco. Da appendere alla borsa, attaccare alla porta di casa, legare al passeggino del bambino, alla cartella di scuola... Uno straccio di pace. Per uno slogan amaro e disincantato, un progetto di speranza. Quello che Gino Strada ed Emergency conducono da quattordici anni e l'altra sera - in un Auditorium del Conservatorio di Cagliari troppo piccolo per contenere tutti - ha sedotto più di ottocento persone. Volontari, medici, insegnanti, casalinghe, impiegati e giovani, moltissimi giovani. Universitari, liceali, studenti medi che si sono dati appuntamento per una sera diversa.
Il clima è lo stesso che pochi mesi fa caratterizzò l'incontro del pubblico cagliaritano con Giovanni Allevi: applausi a scena aperta, visi emozionati, fotografie e adolescenti seduti per terra, con buona pace dell'austerità del luogo. Ma stavolta non si tratta di musica. E il protagonista non ama le feste. Sessant'anni, l'abbigliamento casual di sempre, Gino Strada non si perde in chiacchiere. E se si sottopone al rito degli autografi lo fa per la causa. «Lasciate qualcosa di voi», dice al termine della serata, quasi con un sussurro. E non sta parlando di soldi. Non solo di soldi. Sta invitando chi l'ha ascoltato a dare un senso a quello che ha sentito. Si sta rivolgendo, soprattutto, a quei ragazzini che chinano il capo quando sullo schermo scorrono immagini troppo dure: corpi crivellati, cuori che battono a cielo aperto, gambe maciullate. Sono loro la speranza di un futuro più decente. E se ieri erano in tanti, significa che sperare si può.
Chiude aiuto, Strada, per quella che definisce un'avventura di civiltà. Finora la Sardegna gli ha risposto. A Cagliari venerdì c'erano dieci gruppi di volontari a organizzare la manifestazione, a distribuire - insieme con gli stracci di pace - depliant e riviste, libri e magliette. Omaggi gratuiti e altri a pagamento. Perché, si sa, non basta l'entusiasmo per sostenere un'iniziativa internazionale che in 14 anni ha profondamente segnato la geografia della solidarietà. Occorrono soldi, e tempo, e attenzione. Quella che ha trasformato due ore di argomenti tostissimi in uno momento di alto livello. Dove l'etica si è (finalmente) fusa con l'estetica, la banalità del male ha ceduto il posto alla grandezza del bene e tutto ciò che è stato detto, e mostrato, aveva un senso compiuto.
Tutto comincia dalla fine. Da quelle foto dell'ospedale Salam di Karthoum che rappresenta l'ultimo capitolo della lunga storia di Emergency, l'ultimo dei settanta ospedali e degli oltre cinquanta centri di pronto soccorso aperti finora in Africa e in Asia. A raccontare il miracolo dell'ospedale è Piero Abruzzese, amico di vecchia data di Strada e complice di questa avventura cominciata meno di tre anni fa. Direttore del dipartimento di cardiochirurgia all'ospedale di Torino, un passato professionale cagliaritano, è stato fondamentale per la realizzazione del progetto. L'ospedale, racconta, rappresenta un centro cardiochirurgico di eccellenza invidiabile per gli stardard europei e italiani. Un luogo dove la medicina è di altissima qualità, e gratuita. Come dovrebbe essere dovunque, come dovunque non è. Un ospedale per il più grande degli Stati africani, il Sudan, e per le nove nazioni (anche nemiche) che lo circondano. «Quando Gino mi disse che in meno di due anni sarebbe stato in funzione non gli credetti». E invece eccolo qui. A dirci che bellezza, eccellenza e salute possono andare d'accordo. Abruzzese illustra le qualità architettoniche e tecniche, mostra le foto, snocciola le cifre di un successo insperabile: tre sale operatorie «che vorrei avere io a Torino», una terapia intensiva con quindici posti letto, settecento interventi in un anno («arriveremo a mille»), un indice di mortalità del 2,5 per cento». E ancora: novemila visite ambulatoriali, 4600 specialistiche, uno staff di medici e infermieri di tutto rispetto, un amico ottantaquattrenne che si chiama Lucio Parenzan (è il grande cardiochirurgo infantile) «e ogni tanto viene a darci una mano». «Questa è la maniera giusta per fare medicina umanitaria. Non caritatevole, non colonialista, ma solidale. Con un solo obiettivo: l'eccellenza gratuita».
Non dice di più. A parlare sono le immagini di un filmato di otto minuti, che arrivano dopo altrettanti minuti d'attesa (il cardiochirurgo, e Strada, appartengono all'era analogica, il digitale ha segreti anche per loro). Arrivano e travolgono il pubblico con la forza della loro verità. Eccolo l'ospedale grigio e rosso e blu. Ecco la prima paziente operata. Si chiama Sunia e il suo cuore che pulsa a cielo aperto non è diverso da quello delle ragazzine della “Regina Elena” che chinano il capo, quando il regista inquadra l'intervento.
Arriva lui. E ricomincia da capo. Da quei tre milioni di vittime civili della guerra. Il 90 per cento, contro il 15 della prima guerra mondiale, e il 65 della seconda. Ricomincia da quei 4000 volontari che lo sostengono, da quei 2500 operatori (retribuiti) che lavorano negli ospedali di Emergency: a curare i feriti, ma anche i malati, perché di guerra ci si ammala e si muore. Stila un elenco di numeri, il dottor Strada, e la sua è una denuncia senza sconti alle nazioni che rispondono ai conflitti con la corsa agli armamenti, alla Nato, ai produttori di mine antiuomo, a chi trasforma la malattia in profitto. Non è un pacifista tout court, è un uomo molto arrabbiato, che usa la rabbia come occasione per rendere il mondo meno fetente. «E dire che il capo del governo italiano lo ha definito un uomo con le idee confuse», nota Giorgio Pisano, che modera gli interventi e sottolinea gli attacchi delle lobbies più varie all'operato del medico.
Strada è anche un ottimista. Non starebbe lì, a cercare volontari, a dare un numerino facile di Emergency (02881881), a ringraziare l'Italia per il 5 per mille (4 milioni e mezzo nel 2006), a dire - in un rovesciamento di parti che rappresenta la sua rivoluzione - che in questi 14 anni «ogni tre minuti abbiamo curato un ferito o un malato. E uno su tre era un bambino». Proprio come tra le vittime civili delle nostre guerre.
MARIA PAOLA MASALA
28/09/2008