Rassegna Stampa

La Nuova Sardegna

Jan Fabre, l’arte di sospendere il tempo

Fonte: La Nuova Sardegna
13 novembre 2012

Al Massimo di Cagliari la prima nazionale di “Drugs kept me alive” del regista belga con il danzatore Antony Rizzi
 

di Walter Porcedda

CAGLIARI

Sull’orlo del precipizio. In rallenting ad osservare l’attimo di sospensione prima che la catastrofe accada. Il teatro e la danza di Jan Fabre, teatrante di origine belga, icona dai mille volti, amato e venerato artista di livello internazionale continuano in questo modo a focalizzarsi attorno al nocciolo dell’esistenza. E dei suoi indecifrabili misteri. La scena è il campo di battaglia di una ricerca infinita, quasi una magnifica ossessione, legata al corpo, in primis quello dell’attore o danzatore, come individuo della specie umana da studiare ai raggi X, da mettere sotto la lente di un entomologo (e forse non è un caso che sia pronipote di un famoso naturalista, Jean-Henri Fabre). Parte di un tutto l’artista è la punta speciale dell’iceberg di una umanità alla deriva, antenna sensibilissima in grado di captare in antecipo ricevendo i segnali del futuro. Ma anche di perdersi come una farfalla che ha perso le ali. Così accade in “Drugs kept me alive” l’ultima fatica di Fabre che vede in scena lo straordinario performer e danzatore italo americano Antony Rizzi, interprete unico del monologo autobiografico danzato, presentato domenica in prima nazionale al Massimo per il festival Find 30 dell’Asmed. Anche in questo allestimento Jan Fabre gioca sul filo. In una acida e ironica partita tra inferno e paradiso come la vita di Rizzi, coreografo e danzatore che racconta di sè e di una esistenza spinta a mille, tra sesso e consumi maniacali di droghe. Alla ricerca spasmodica di un climax, di un orgasmo che possa lenire i dolori dell’anima. Ketamina, ecstasy, speed, Lsd, cocaina, poppers e altre sostanze dai nomi esotici o più frequentemente grigi e dall’aria scientifica, tirati via da scaffali di fornite farmacie e ingerite senza soluzione di continuità. Anestetici di pronta presa o eccitanti per restare svegli, cocktail micidiali per sfidare il proprio corpo in una feroce lotta all’ultima pillola. Coprire o sconfiggere una malattia che prima di essere fisica è mentale. «Sono una farmacia danzante» esulta il performer, tra cenni di danza sbilenca mentre si agita dentro un recinto. Un ring, un quadrato, delimitato da migliaia di bottigliette di medicinali. L’estasi e la maledizione. Ma non è una ricerca dannunziana del piacere che spinge a superare i limiti se non piuttosto l’urgenza di gestire l’inesorabile trapasso di una vita stando un passo più avanti a essa, sfidando tutti i limiti («Il vero Io produce la migliore droga mai esistita») per andare oltre. In un territorio effimero come le centinaia di colorate, gigantesche bolle di sapone che Rizzi soffia. Oggetti preziosi come diamanti durano il tempo di un respiro. Colorate e trasparenti, fragili come la vita stessa, raccontano la metafora dell’invenzione artistica – che è stato già oggetto del precedente allestimento “Prometheus Landscape” – e la sua difficoltà di crescere nei nostri tempi di crisi. E gli artisti sempre più in un angolo, ridotti a mera testimonianza. Un’arte che frugando dentro la carne viva, nelle ragioni ultime del corpo, urla il rifiuto alla incomunicabilità di una società che, fondata sul dio danaro, ha dimenticato la solidarietà e ha mercificato l’amore. Jan Fabre sospende l’attimo con un sorriso enigmatico che è uno sberleffo corrosivo come un acido.