MERCOLEDÌ, 17 DICEMBRE 2008
Pagina 43 - Cultura e Spettacoli
All’Exmà le ricostruzioni dello scultore Carmine Piras che hanno spesso affiancato il lavoro degli archeologi
ALESSANDRA SALLEMI
CAGLIARI. Il bronzetto nuragico del soldato orante custodito al museo Pigorini di Roma colpisce l’attenzione dei visitatori più esperti per quella spada appoggiata sulla spalla e non tenuta dentro la faretra: questo bronzetto è l’unico soldatino delle rappresentazioni guerresche del Mediterraneo a presentarsi in tale posa. Carmine Piras scultore di Oristano che da anni lavora al fianco di archeologi del periodo nuragico, ha riprodotto la spada nella dimensione originaria e ha capito perché non poteva stare appesa alla cinta o nella faretra: è pesantissima. Ci ha tagliato di netto un ramo di eucalipto calandola dall’alto, come una ghigliottina, unico modo possibile per usarla. Sugli oggetti riprodotti e poi esplorati nell’uso che se ne doveva fare cinquemila anni fa, Piras ci ha costruito sopra un’intera rassegna che è stata chiusa di recente a Cagliari al centro culturale Exmà, dove le copie di bronzetti famosi sfavillavano nel colore originario del bronzo. In una teca c’era un toro, copiato dal pezzo rinvenuto nel santuario di Santa Vittoria di Serri, di modernità sorprendente. Altri tori gli stavano affianco: per mostrare, attraverso il confronto, che gli scultori nuragici avevano almeno due stili, figurativo e stilizzato. Uno spillone per capelli rivelava un gusto raffinato, una madre con bambina stava seduta su uno sgabello a sei gambe di bella fattura. «I nuragici sentivano la necessità di tramandare, cercavano la bellezza, avevano un profondo senso della natura»: di questo si è convinto Carmine Piras, per il quale la scultura è stata un libro a tre dimensioni che gli ha restituito molte risposte sulla civiltà nuragica.
Cominciò con l’antropologo Carlo Maxia dell’università di Cagliari che studiava quale fosse stato l’uso dei vasi ritrovati nei vari nuraghi riportati alla luce. Un incontro interessante: per indagare, all’antropologo servivano la mano e l’occhio dello scultore: «Scoprimmo che erano abilissimi fonditori - ricorda Piras -, che una fonderia nuragica avrebbe potuto funzionare anche oggi. Si erano creati gli ambienti, avevano inventato gli strumenti, conoscevano i metalli, andavano a cercare materiali come rame e stagno in giro per il Mediterraneo, sono diventati commercianti. Fondevano per altri popoli, poco è arrivato a noi perché i Romani, tra gli altri, riusavano tutti i metalli che trovavano. Certo furono i popoli nuragici a esportare l’ossidiana nel Mediteranneo: i Fenici, grandi mercanti, arrivarono quando questa pietra era caduta in disuso».
Piras ha un lavoro in corso per il comune di Orroli: «Stiamo ricostruendo tutti i vasi trovati nel complesso del nuraghe Arrubiu, studiamo forme, misure e tecniche di lavorazione: i nuragici trattavano qualunque materiale, anche qui si vede la ricerca del bello». Sul tema del bello è spontaneo il paragone tra l’aspetto del nuraghe, massiccio, rozzo e senza una evidente evoluzione architettonica in senso estetico e quello di edifici dello stesso periodo costruiti in altre parti del mondo, da Babilonia all’Egitto. «Il nuraghe è rozzo forse nell’estetica - commenta lo scultore - ma è complesso e sofisticato nella costruzione. Le piramidi venivano edificate con pietre squadrate, qui facevano stare in piedi edifici fatti di pietre deformi in equilibrio su se stesse. Erano bravissimi ingegneri: i muri sono cavi, ci doveva stare la scala, nella cavità interna c’era la volta a tolos, tenuta senza malta e quindi con un rigoroso studio delle spinte». Si può concedere che una fortezza non dovesse rispondere a esigenze estetiche: «Io non credo che i nuraghi dovessero essere fortezze. Nell’isola ce ne sono quindicimila: c’era bisogno di quindicimila fortezze? E per cosa? Per tenere gli uomini dentro e le greggi fuori? Non credo che fossero fortezze: allora c’erano le foreste, più utili per nascondersi assieme agli animali. E poi sulla sommità delle torri venivano costruite le corone: l’idea che danno è più quella del tempio. Ma pensiamo per un attimo ai pozzi sacri: possiamo negare che siano anche ‘belli’?». A favore della fortezza, casa di un popolo guerriero, c’è la varietà di armi raffigurate attraverso i bronzetti: «E perché non consideriamo per un momento che potessero essere votive? Stiamo ricostruendo le armi proprio cercando di interpretarne l’uso». Di sicuro fascino l’arco lungo, circa un metro e sessanta, di frassino o di «spaccasassi» (bagolano), con le punte di corno, vere leve destinate ad aumentare la potenza del tiro: tremila anni fa, i nuragici avevano capito che l’arco doveva essere «alto» quanto la persona, così acquistava grande elasticità e poteva fare tiri a novanta metri. «Un arco del genere - continua Piras - si vede soltanto fra gli inglesi del Medioevo, una reinvezione che dilagò in tutto il Mediterraneo». Uno strumento di tal fatta non serviva probabilmente per la caccia, ma secondo Piras bisogna davvero smettere di pensare che i nuragici fossero per forza soltanto guerrieri, i ritrovamenti hanno dimostrato che in quel popolo c’erano altre sensibilità: «Se si bada ai ritrovamenti, si constaterà che non si rintraccia mai una tomba del capo, non c’era l’orgoglio di costruire una piramide, il capo era un uomo del popolo, un popolo che non adorava gli uomini divinizzati. Rispettavano la natura, l’acqua, gli animali: si capisce da come li scolpiscono. E poi c’erano i bronzetti che raffigurano gli offerenti: offrivano qualcosa alla divinità o al vicino di casa? L’usanza di ‘sa mandàra’, quando si ammazzava il vitello, in Sardegna è stata sempre quella di portare qualcosa al vicino. Ci si presentava augurando ‘salude’ e alzando la mano. Sono tanti i bronzetti ritrovati con la mano alzata, proprio come si fa ancora oggi nei paesi. Io credo che, per rientrare in quel mondo, sia d’aiuto anche l’immedesimazione nelle situazioni di necessità. Quando, nello studio degli usi degli oggetti, ci trovammo al punto di capire come facessero per tenere assieme pezzi di stoffa o di cuoio, quali fossero insomma le fibbie dei nuragici, ci imbattemmo in centinaia di cerchietti di bronzo: provammo e riprovammo a legarli insieme e vennero fuori le fibbie».