CAGLIARI Cronaca di un insuccesso annunciato. E, parafrasando il “Coro delle incudini” (dal Trovatore) eseguito al Lirico proprio nei giorni scorsi, ci si potrebbe domandare: «chi del teatro i giorni abbella?». Certo non il pubblico, che ha disertato il concerto straordinario “Da Le Roncole al Nuraghe”, venerdì (e ieri) primo appuntamento allestito dalla neo Soprintendente Angela Spocci. Platea e gallerie quasi vuote, un centinaio di spettatori circa, ai minimi storici, non capitava da tanto. Nemmeno al recital cameristico più di nicchia. Che non abbia allettato il contenuto? Né la miscellanea di pagine verdiane, né l’antologia dedicata al sardo/romano Ennio Porrino? O il titolo non felicissimo (correlazione forzata di un toponimo a un’architettura protostorica). Poco importa. Ormai è andata così. Non resta che tirare le somme, e auspicare che il pubblico dia una chance alla Stagione sinfonica appena annunciata. Diversamente, la situazione sarebbe drammatica. Intanto venerdì abbiamo trovato sul podio Stefano Rabaglia. Al direttore parmense va reso atto dell’impegno ad affrontare un repertorio, poco frequentato, come quello porriniano. Giacché, pur essendo compositore minore, Porrino immortala stilemi, temi e strutture del folclore sardo, immergendoli nell’ambra del suo linguaggio eteroclito. Non dispiace riascoltare “Le voci dell’universo” tratto da “I Shardana”: coro (istruito da Gaetano Mastroiaco) e orchestra del Lirico in un monumentale affresco, che ricorda in parte il finale dei “Gurre-Lieder” di Schoenberg e a momenti il “Daphnis et Chloé” di Ravel. Quasi una novità invece le «Tre danze primitive sarde» e le «Tre canzoni italiane»: le prime, più sperimentali nella ricerca di soluzioni timbrico-armoniche innovative; le seconde, trascrizione senza troppi cerebralismi di melodie sarde note. L’esecuzione è abbastanza godibile. Merito anche del primo violino Giammaria Melis, che a tratti appare il visibile/udibile punto di riferimento per gli “attacchi” e la tenuta ritmica nei passaggi più complessi. Relativamente più semplice la silloge verdiana. Non scevra però di qualche difetto. Il Verdi di Rabaglia è trascinante nei tempi concitati, incerto in quelli più contenuti. Impasti timbrici non sempre raffinatissimi. Discreta la prova di Anna Maria Chiuri, un’Azucena sanguigna in “Stride la vampa” (Il Trovatore), e fervida Amneris in “Già i sacerdoti adunansi” (Aida), affiancata qui dalla vocalità squillante di Roberto Iuliano, meno convincente tuttavia nell’aria di Madcuff “Ah, la paterna mano” (Macbeth), tendente un po’ all’urlo negli acuti, dove pur con intenzione espressiva la voce si apre troppo.