Rassegna Stampa

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50 anni di pallone in Sardegna: Cagliari, Riva e mille aneddoti

Fonte: web Cagliari Globalist
9 ottobre 2015

 


In un libro di Paolo Piras il racconto di fatti e calciatori che hanno rappresentato l'isola.

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di Valerio Rosa

«L'arbitro fischia una punizione dal limite dell'area e sugli spalti del Sant'Elia si scatena il panico. Molti, la faccia tra le mani, preferiscono non guardare. Altri cominciano a metter via i sediletti di gommapiuma per avviarsi al parcheggio. Altri ancora allargano le braccia: vabbe', è andata così, avevamo retto fino ad ora. Ma non tutti stavolta si rassegnano. Dalle tribune qualcuno nota che la barriera si muove, spaesata, a strattoni, ora a destra ora a sinistra. Per capirci qualcosa bisogna guardare dietro la porta, tra il pubblico. Ammassato contro la balaustra della curva Nord c'è un gruppo di tifosi. Urlano e si sbracciano, cianotici. Stanno contendendo al portiere il compito di piazzare la barriera. La vera sorpresa è che la barriera, dopo qualche iniziale incertezza, sta dando retta alla curva. Correva l'anno di disgrazia 1984.».

Poche righe per mostrare come anche in Italia, a patto che si tengano i televisori spenti, si possa raccontare un calcio più umano o, come vuole la moda, più sostenibile, in ogni caso più somigliante a uno sport che a un ramo dello spettacolo. Pazienza per le riprese in alta definizione, per le visioni di livello cinematografico, per i deliri ansiogeni e dementi dei telecronisti urlatori di nuova generazione, affetti da ossessioni compulsive per le statistiche. Il lettore dimentichi l'orrido frasario punkabbestia, zeppo di luoghi comuni, ellissi e grugniti, con cui oggi si usa raccontare il calcio, e si abbandoni sereno all'affabulazione priva di enfasi di Paolo Piras, alla sua parata di Bravi & Camboni (ed. egg, 14 euro), ovvero di giocatori che, con alterne fortune, hanno militato nel Cagliari nell'ultimo mezzo secolo. Un racconto che si nutre di ossimori, di epiche minori e verosimili assurdità, in sicuro equilibrio tra l'ironia beffarda e un'affettuosa pietas, con un largo ma non stucchevole uso di metafore e iperboli di stampo sudamericano, a tratteggiare carriere mai decollate, promesse non mantenute, parabole di onesta mediocrità.

Ecco un portiere talmente inetto sui calci di punizione, che i meno rassegnati tra i tifosi organizzavano la barriera al posto suo; un cannoniere «che non avrebbe centrato una mucca in un corridoio», per la gioia dei ragazzini che durante gli allenamenti si piazzavano fuori dallo stadio, sicuri di fare man bassa di palloni; l'ennesimo straniero venuto di cielo in terra a miracol mostrare e rivelatosi così brocco da suscitare il sospetto che fosse il sosia o il gemello scarso di quello vero. Un tragicomico sottogenere, quello dei bidoni di importazione, che annovera tra i suoi massimi esponenti l'improbabile terzino sudafricano David Nyathi - «laterale sinistro di difesa, pare. Ma siamo davvero nell'ambito delle congetture» -, passato ingloriosamente agli annali «perché i tifosi sardi, in grave difficoltà con la pronuncia del suo nome, che era pur necessario per insultarlo appieno dagli spalti, finirono col rassegnarsi a chiamarlo "Gnaziu"».

E ancora: le parabole picaresche ci certi presidenti, le giocate soprannaturali di Zola e Francescoli, il disincanto e l'allergia alla banalità di Manlio Scopigno, l'allenatore dell'unico, irripetibile scudetto; il fiuto del sanguigno Arturo "Sandokan" Silvestri, lo scopritore di Riva. Leggende trasfigurate e ingigantite da una solida e alcolica tradizione orale, fonte di un'aneddotica non sempre ineccepibile sotto il profilo, ottuso e in fondo inutile, dell'attendibilità: ma questo ha davvero poca importanza, visto che il libro di Piras, a nostro avviso il migliore degli ultimi anni nel suo genere, è in realtà un omaggio al calcio dei bar, delle strade sterrate e dei polverosi campi di provincia; al piacere del racconto tra amici; al romanticismo calciofilo che preferisce la risata alle isterie e alle guerre di religione; alla Sardegna, che sa rispettare il desiderio di essere amati e di essere lasciati in pace, e per questa ragione ha fatto suo per sempre Gigi Riva, assurto per unanime e tacito consenso al rango di divinità laica locale.

Riva era l'ultima voce di una filastrocca di cognomi che iniziava con Albertosi, uno dei protagonisti di un altro interessante libro di argomento calcistico, Portieri figli di puttana, di Fausto Bagattini (ed. ultrasport, euro 16,50), il cui spirito è ben sintetizzato da Sandro Veronesi: «Il portiere è pazzo, e la pazzia prima o poi gli presenta il conto. Ma se la pazzia è una, le vie di fuga sono due: diventare eroi di sventura o diventare figli di puttana». Più che un libro, un casellario giudiziale, Valerio Rosa una sfilata di storie sbagliate, di vite sopra le righe, di varie eccentricità e di errori pagati con la galera. A volte peccati veniali, come il contrabbando di merce occidentale di cui fu accusato lo jugoslavo Vladimir Beara, più spesso vicende terribili, come il caso del brasiliano Bruno, capitano del Flamengo in odor di Seleção, finito in gattabuia per aver fatto rapire, uccidere e dare in pasto ai cani l'attrice porno che aveva messo incinta, dopo che la sventurata, resistendo a pressioni e minacce di ogni genere, si era rifiutata di abortire. Merita particolare attenzione il capitolo dedicato alla parziale riabilitazione di Ramón Quiroga, protagonista ma non unico colpevole della combine che permise all'Argentina di accedere comodamente alla finalissima dei Mondiali casalinghi del '78, organizzati dal regime di Videla col proposito di vincerli a tutti i costi. L'argentino Quiroga, portiere della nazionale peruviana grazie a una frettolosa naturalizzazione, fu l'ultimo anello di una catena oliata dal governo dei militari, dal narcotraffico colombiano e dalla Segreteria di Stato americana, che prepararono il terreno alla larga vittoria dell'undici di Menotti ai danni del Perù (fondamentale per sopravanzare il Brasile nella differenza reti e "soffiargli" la finale per il primo posto). Quiroga non ebbe il coraggio di ribellarsi, si lasciò manovrare, come tutti gli altri, «come fosse facile rifiutare un ordine dettato da Kissinger, come fosse facile disobbedire a Videla. E allora pensateci bene prima di sparare ancora a zero su quel povero diavolo di Quiroga».