Il 13 settembre è stata inaugurata, presso la Passeggiata Coperta, L'Expò delle sette città regie della Sardegna (Cagliari, Sassari, Iglesias, Alghero, Bosa, Castelsardo, Oristano), che acquistarono tale dignità e importanza nel periodo della dominazione aragonese (1323) e la mantennero fino all'unificazione perfetta del 1846 con gli Stati di Terraferma del Regno di Sardegna. L'esposizione, che traccia un ideale itinerario storico culturale della Sardegna, dalla fine del Medioevo all'era contemporanea, non poteva trovare uno spazio migliore della Passeggiata coperta del Bastione di S. Remy, luogo simbolico di una modernità programmata a partire dall'esigenza di espandere la città al di là delle mura del Castello.
Questo percorso ebbe inizio nell'aprile 1899. Le foto storiche mostrano il re Umberto I che assiste alla posa della prima pietra nell'area dove sorgerà l'attuale palazzo Civico di via Roma. Ancora oggi i suoi archi ricordano, da un lato, il gotico catalano, dall'altro le decorazioni liberty. Un punto d'incontro visivo tra passato e presente. In realtà il simbolo di una rottura, la volontà esplicita di porre fine al riconoscimento della città arroccata nel suo castello e nelle sue bianche mura.
Pochi anni più tardi, nel 1902, fu appunto realizzato uno dei monumenti più caratteristici della "Belle epoque" cagliaritana: Il Bastione di S. Remy, o più comunemente "il bastione" come viene chiamato anche oggi dai cagliaritani che si affacciano sulle sue terrazze che dominano l'intera città e il fronte portuale e marino. A differenza del Palazzo Civico, sorto a debita distanza dai palazzi di Castello, il nuovo bastione - derivante dall'unificazione/trasformazione di tre fortificazioni, La Zecca, Saint Remy e Santa Caterina - era una sorta di grande porta d'ingresso alla vecchia Casteddu, e come tale, del tutto simile alle grandi gallerie cittadine otto/novecentesche di altre città (Milano, Napoli, Roma).
Si offriva teoricamente come luogo di mondanità quotidiana per la nascente borghesia urbana: il passeggio serale, il caffè, le esposizioni. Però le circostanze storiche ne determinarono un uso abbastanza variegato: sede congressuale e festivaliera, uffici del Ministero del Tesoro, infermiera bellica durante la prima guerra mondiale, abitazione per i senza tetto nel secondo dopoguerra e di nuovo sede espositiva: qui si tenne infatti la prima edizione della Fiera campionaria della Sardegna, nel 1949. Di fatto, nonostante quella maestosa porta d'ingresso, rimase per molto tempo - e forse ancora - il vecchio Casteddu. E non a caso, ancora nel 1911, un viaggiatore americano, J. E. Crawford Flitch, ironizzando sulla legittima aspirazione della città a diventare - attraverso gli sventramenti e la monumentalità - una piccola Parigi, scriveva che neanche Napoleone III e Hausmann avrebbero potuto trasformare vicoli e scale che portano a Castello in "boulevards".
Forse, per capirne le ragioni di questa separatezza che si sta progressivamente colmando, conviene fare un salto indietro di secoli: nel 1216 la Repubblica marinara di Pisa diventò tutrice/padrona del sud dell'isola e, in pochi decenni, edificò il suo Castel di Castro, disinteressandosi del nome storico della città che lo ospitava.
Non risultano altre sovrapposizioni nominali prima del dominio pisano: Cagliari fenicia, poi romana, è Krly, Karel, Karalis, Kalaris; poi Caller dei catalani e degli spagnoli, penultima deformazione del nome antico. Però Casteddu è un'invenzione lessicale autoctona che merita qualche riflessione, visto che è rimasto, anche oggi, l'autentico, benché tardivo, nome sardo del capoluogo.
è evidente che il principale segno di riconoscimento della nuova città costruita dai pisani stava in quell'escrescenza non più solo geografica ma tipicamente urbana: la città bianca dello scrittore Sergio Atzeni, appunto, con le sue torri e le sue mura visibili in tutto il circondario. Un simbolo di potere ed una barriera insormontabile tra i signori e i popolani, tra i padroni della città e quel brulicare di un'umanità pezzente, quasi bruegheliana - almeno nelle descrizioni dell'Apologo del giudice bandito - che si muove oltre le mura, nei quartieri bassi e nei paesi che fanno corona alla città.
Prima del tramonto, raccontano le cronache, "su sonu 'e corru" avvisava gli indesiderati o i tollerati, cioè il popolo minuto, i sardi del contado dovevano tornare indietro, riattraversare le porte della città alta, pena il carcere o la sbrigativa eliminazione tramite il lancio del malcapitato dalle mura. La percezione legata a quel nome, Casteddu, diventò così una vulgata antropologica - tra le tante che attraversano la cultura isolana - difficile da spiegare ad uno "straniero". Difatti, l'accostamento Casteddu/Casteddu avrà avuto un significato diverso per il principe siciliano Francesco Alliata, in visita culturale in città nel novembre scorso. L'erede della famiglia che comandò la fortezza all'inizio del '300, quando furono edificate le due bianche torri del Capula, voleva ritrovare quella che per lui era la Torre Alliata, in realtà la Torre di San Pancrazio, segno di comando di un suo lontano antenato, Betto Alliata, castellano, cioè controllore del Castello, e dunque della città. Per lui, quella torre, quella cittadella con le sue stradine e i suoi palazzi nobiliari, con i suoi leoni in pietra a guardia della cattedrale, con il pulpito di Mastro Guglielmo proveniente dalla cattedrale di Pisa, rappresentavano - erano - la città, ovvero un concetto di urbanità moderno che avrebbe dovuto superare il medioevo. Ma per i sardi quel termine è rimasto come un'impronta di un passato che evidentemente non è ancora passato o, se passato, ha lasciato tracce profonde, forse incancellabili.
La lunga transizione verso la modernità effettiva - case riaperte, servizi adeguati, strade rifatte, monumenti e chiese restaurate - è avvenuta per gradi e per salti, con frequenti sospensioni, e probabilmente ha sempre ruotato idealmente attorno al Bastione, la terrazza e soprattutto la Passeggiata Coperta che "si sporge" verso la città novecentesca. E d'altronde questa è anche la percezione che si ha, quando si arriva in città dal mare: l'"escrescenza" medievale è mitigata dalla continuità monumentale tra il porto e i viali che portano al Bastione. Forse, se qualcuno avesse pensato, ai primi del Novecento, anche ad un "elevador" come quelli che si vedono a Lisbona, l'unificazione urbana sarebbe stata perfetta.
Gran parte della "rinascita" attuale si deve agli stessi cagliaritani che, letteralmente, si sono impadroniti della città vecchia per ambientare un perenne "movida". Ma questa non sarebbe stata possibile senza la letterale riapertura di ogni spazio ambientale, architettonico, monumentale, museale: le torri pisane, le chiese, i palazzi storici, le piazze, il museo archeologico, la pinacoteca nazionale, la Galleria d'arte contemporanea che conserva una delle più ricche collezioni del Novecento Italiano, i Giardini pubblici, le porte medievali.
Così attorno alla "cattedrale laica" - così l'ha definita Vittorio Sgarbi - c'è così un mondo nuovo, derivante dalla suggestione degli spazi urbani ritrovati e dalla frequentazione dei cagliaritani. Questo mondo nuovo, espanso anche culturalmente oltre le mura, comprende altri monumenti rilevanti che, restaurati in questi ultimi dieci anni, hanno ridisegnato la topografia artistica della città: dal vecchio Mattatoio ottocentesco e dal Lazzaretto secentesco, sorto ai margini della città, di fronte al mare, sono stati ricavati centri culturali e sale espositive che ospitano grandi e piccole mostre di pittura e fotografia. Il Teatro Civico, sorto nel Settecento ai margini del Castello e poi "sventrato" da una bomba durante le incursioni alleate su Cagliari, è diventato - dopo il recente restauro - un teatro all'aperto frequentatissimo durante le stagioni primaverili, estive e autunnali.
Chiese e basiliche che custodiscono la memoria storica della città, sono state riaperte al culto ma usate stabilmente come sede di concerti di musica da camera.